La prima parte di questo mini racconto la trovi in Un barattolo pieno di confetti.
Jack O’ Lantern, con la solita sigaretta fatta di gomma da masticare, appesa a mezzo labbro della sua mezza bocca sulla sua mezza faccia, se ne era tornato in strada e osservava la finestra di Ginger da sotto in su. L’altra mezza faccia l’aveva cotta in pentola, per prepararle un risotto resuscita morti e tirare su di morale quella povera donna. Vero che le era preso un colpo quando lo aveva beccato con la testa a metà, ma la cena era filata liscia e il dopo cena anche. E poi, lei gli aveva lasciato l’intera bottiglia di Macallan.
Non che Jack, a dispetto delle leggende, amasse entrare in contatto con il mondo degli umani. Gli ricordavano un’ansia e una precarietà che aveva abbandonato da tempo. Si divertiva a osservarli, comunque, standosene appollaiato su qualche davanzale o appeso a qualche albero, senza muoversi o proferire parola. A lasciarlo interdetto era il terrore che il buio e qualche faccia diversa dal solito fossero in grado di provocare in ognuno di loro. La morte, poi. Il loro più grande cruccio. Signora, avrebbe voluto dire alla giovane donna che aveva lanciato un urlo trovandoselo davanti in una casa di fantasmi, ha paura di me e non dell’uomo che ha sposato? Di me e non di aver rinunciato a progetti importanti per dargli figli di cui non gli importerà mai niente? E il macellaio di zona, quello che con le carcasse aveva a che fare tutti i giorni e si dava alla fuga come se gli zombie sbucati dal vialetto potessero mangiargli sul serio il cervello? Intanto poi tornava tranquillo a casa da sua madre, che lo tiranneggiava da sempre, impedendogli di sposarsi, fino a farlo restare celibe, per non dire illibato, alla soglia dei suoi virili cinquant’anni.
Con Ginger la situazione era diversa. Lei sembrava aver colto, nonostante temesse i suoi ultimi istanti, il nocciolo della questione. Che non era, in fondo, l’essere amata o tradita, ma l’aver avuto un significato. E un senso. Poteva raccontare quanto voleva del suo cuore sanguinate, del marito fedifrago, della solitudine, ma ciò che le spezzava l’anima era la convinzione, profonda, pura, semplice, che il suo passaggio su questa terra fosse passato inosservato. Che la sua vita non avesse inciso in quella di nessun altro né avrebbe lasciato tracce dietro di sé.
Per un attimo, mosso da una strana compassione, aveva pensato di rifilarle il solito discorsetto edificante: «Sai, Ginger, tutta questa storia del senso della vita, della traccia da lasciare non è altro che una delle più grandi illusioni inventate dall’uomo. Ogni volta che perde Dio, cerca in qualche modo di sostituirsi ad esso, di convincersi che qualche potere lo ha, di modificare il mondo e gli altri. E chiama questa possibilità Amore, talvolta Arte, più raramente delirio di onnipotenza.»
Ma Ginger non avrebbe abboccato, ne era certo. Aveva, lei, esplorato le illusioni degli uomini attraverso le proprie e riducendo i propri sogni ad illusioni, aveva decostruito quelli altrui, quelli vivi in ogni romanzo o in ogni storia che pareva vera, accreditata, possibile. Ginger aveva tirato giù il velo e lo aveva sfilacciato pian pianino, in modo da non poterlo riprendere in mano ancora una volta. Questa lucida voglia di togliere a se stessa ogni appiglio, ogni possibile illusione, non era sembrata, a Jack, frutto di tristezza infinita, quanto una sorta di ago magnetico, sui cui tarare la ricerca di sé. Solo che, alla fine, dopo tanto camminare, non era riuscita a trovarsi.
Che strana donna, pensava: in grado di passare allo specchio secondi eterni per cercare di riconoscersi, di darsi un nome, di organizzare le sue prossime conversazioni con signora Morte. A modo suo, senza rendersene conto, si era conquistata un potere più vicino al mondo che non c’è, che non a quello degli umani, eppure non sapeva che farsene. Chissà cosa sperava di trovare dietro il velo o cosa pensava di poter fare dopo averlo distrutto. Credeva forse che tutta quella lucidità le avrebbe spalancato le porte dello sconfinato amore per se stessi? Chissà quante volte aveva letto e riletto la storia della bambina che è in noi e che dobbiamo saper amare e perdonare. Ma non aveva trovato nessuna bambina. Erano passati troppi anni e di quella che lei era stata, prima che la ferissero o quando la ferita poteva ancora essere guarita, non c’era traccia. Ché il tempo, Jack lo sapeva, non è lineare e in quel groviglio è impossibile incontrare se stessi per la prima volta.
Ginger era tornata alla finestra: sbirciava dietro i vetri, troppo vicina, con la fronte posata sulla superficie fredda e la condensa del suo respiro che, agli occhi dei passanti, la trasformava in una bambola di pezza, messa lì a bella posta. Lui avrebbe dovuto infischiarsene. Non era una regola, più che altro una consuetudine. Serviva a evitare legami che restavano poi presi nel mezzo della notte del trentuno e a metà tra la fede e la ragione. E insieme al legame, restavano nel mezzo anche gli umani, sospesi per sempre nell’incredulità. Per loro era diverso, per quelli come lui, destinati a non essere parte di nulla e abituati ad andare e venire dal mondo. Gli uomini potevano impazzire nella non appartenenza e nelle penombre di una realtà poco certa. Eppure Ginger, lui pensava, aveva un suo personale carico di ombra che non l’avrebbe mai fatta sentire spaesata. Valeva la pena rischiare?
Riattraversò la strada e suonò ancora una volta al campanello. Ma non serviva, il portone era aperto. E così la porta di casa di Ginger.
Dalla cucina proveniva uno strano rumore e la padrona di casa, che si era rimessa evidentemente al lavoro, dopo la pausa accanto ai vetri, pronunciava sbuffi di fatica e di poca soddisfazione. Jack la raggiunse, cogliendola di spalle mentre armeggiava china sul tavolo.
«E dire che ti credevo già a letto.»
«Bugiardo, mi hai vista dietro ai vetri.»
«E dire che credevo fossi andata a letto dopo aver sostato dietro i vetri.»
«Che vuoi?»
«Altro Macallan.»
«Bugiardo, di nuovo.»
«Mi stavo annoiando.»
«Sei peggio della peggiore nonnetta del quartiere, ti sei fatto muovere a compassione.»
«Ti sbagli. Tu la chiami compassione, io lo chiamo interesse per emozioni che non mi sono familiari.»
«Vuoi girare un documentario su di me? Per spaventare il regno dei morti?»
«Ginger, l’auto denigrazione non ti si addice.»
«Ma che auto denigrazione, è un dato di fatto: quanta paura può fare a uno di voi la possibilità di esistere sul serio e non sapersene che fare di quell’esistenza?»
«Molta, in effetti.»
Ginger continuava a offrire le spalle a Jack e a dedicarsi al suo progetto. Jack, pertanto, conoscendo ormai bene l’appartamento, si diresse verso il soggiorno e, data la mancanza di alcolici, si servì un generoso bicchiere di acqua tonica dal mobile bar: «Non voglio disturbarti, ma non mi va neanche di ciondolare di qua e di là. Posso accomodarmi in poltrona?»
«Fai come se fossi a casa tua.»
«Ma io non ho una casa.»
Ginger si arrestò e volto appena la testa sulla spalla, come se potesse davvero scorgerlo da quella angolazione: «Come sarebbe a dire che non hai una casa? Dove vai dopo stanotte?»
«Credimi, non saprei come spiegartelo. E detesto le metafore insufficienti e banali: un altro regno, il regno delle ombre, il mondo degli spiriti. Vado e basta, sto e basta, in un dove e in un come che voi umani non potete capire.»
Ginger scrollò le spalle come a dire se è così che la metti…
«Si può sapere cosa stai facendo lì in cucina?»
«Perché non sei venuto a vedere appena entrato?»
«Per rispetto. Sono un gentiluomo d’altri tempi. Aspetto di essere invitato.»
«Un gentiluomo con mezza testa.»
«L’altra mezza l’hai mangiata tu.»
«Tu pure.»
«Ed era buona! No?»
«Versami da bere.»
«Acqua tonica anche per te, immagino.»
«Non dire sciocchezze. Sono stata astemia tutta la vita, ora che sto per morire ci vuole roba forte. Guarda dietro Guerra e Pace.»
«Mignon di vodka! Non so se mi fa più tristezza che ci sia della vodka dietro Tolstoj o che sia in quantità limitate.»
«Dietro Fiesta puoi trovare del rum, se ti interessa.»
«Non ho parole.»
«Hai solo mezza bocca, è comprensibile.»
Tornato ridacchiando al tavolino del soggiorno, Jack mescolò arditamente la tonica con la vodka e ne portò un bicchiere a Ginger. Si preparava a un brindisi arguto, quando la vide scolarsi il bicchiere tutto d’un fiato e rimanere ancora voltata verso il tavolo: «Non è che mi dai le spalle per, chessò, non farmi vedere che stai piangendo o che ti sei cavata gli occhi con un cucchiaino, vero?»
«Quale delle due ti farebbe impressione? Torna tranquillo alla poltrona, schiaccia un pisolino e russa col tuo mezzo naso, mi manca solo una manciata di minuti.»
Sorpreso dalla propria arrendevolezza, Jack fece dietro front e continuò a sorseggiare bibite per venti minuti buoni. Poi, e non gli era accaduto davvero mai in tutta la sua lunga vita, si addormentò.
Al suo risveglio, trovò che le luci fossero un po’ più basse. Forse erano spente quella del corridoio di ingresso e quella della cucina. Si voltò e vide che Ginger, in effetti, non era più lì. È che, mancandogli mezza faccia, Jack non aveva potuto scorgere con la coda dell’occhio, anche quello mancante, che la poltrona accanto alla sua era stata nel frattempo occupata. Ridacchiante, con una testa di zucca, piantata sulla propria, Ginger se ne stava con un bicchierone colmo, in mano, a sorseggiare gin da una cannuccia colorata.
«Scommetto che non te l’aspettavi.»
«Non è venuta male. Direi che hai del talento.»
«Se fai il bravo, te la regalo prima dell’alba. Ora versami della vodka.»
Stupendo
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Grazie 🙂 Jack e Ginger si sono presentati da soli 😀
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