Abitava nella piccola frazione di un piccolo paese in provincia di una città non troppo grande. Si chiamava a seconda di chi lo chiamava. Ogni abitante lo aveva battezzato al primo incontro e quindi Oscar Tito Merry Gigio Conte Roccia se ne andava in giro, re incontrastato della zona, fiero di quei tanti nomi che gli concedevano parvenza di nobiltà. Gli avevano dato molti altri appellativi, naturalmente, ma quelli erano i suoi preferiti e lo facevano accorrere rapido, con la coda dritta e le fusa già pronte. In cambio di cotanto amore, pattugliava la zona, spaventando quei topi che non avrebbe mai mangiato, non quando c’erano i filetti di pollo che, per esempio, elargiva la signorina Tilde. E ogni mattino, topi o non topi, si presentava per i saluti di rito da ogni singola signora e signore, prima di trovarsi un posto al sole o una veranda per dormire saporitamente. Quando sprofondava tra i cuscini del dondolo di Tommaso, per esempio, gli sembrava che nessun pensiero al mondo avrebbe potuto turbarlo, nessuna solitudine raggiungerlo. E quando Tommaso, con una gigantesca tazza di caffè gli si sedeva accanto, gli sembrava quasi che potessero capirsi loro due, privati all’improvviso dei più cari affetti e lasciati lì, in un mondo che si aspetta che te la cavi da solo.
Nel tardo pomeriggio si stiracchiava, si allungava il più possibile, tremando di piacere in tutto il corpo, poi si guardava attorno, come un generale prima della battaglia e andava a occuparsi della ronda, pioggia permettendo. Non c’erano mai grossi problemi o sconfinamenti: risiedeva lì da tre anni ormai e aveva occupato con decisione il proprio territorio, ma talvolta qualche maschio di passaggio tentava una indebita appropriazione e gli toccavano gli straordinari. I vicini umani, sentendo il miagolio di guerra, sorridevano divertiti e anche soddisfatti, come lo si è di una prole combattiva e sveglia e, stranamente, si sentivano anche protetti, quasi che Oscar Tito Merry Gigio Conte Roccia potesse tenere a bada anche i loro nemici.
In effetti, Oscar Tito Merry Gigio Conte Roccia un po’ si occupava di quei suoi strani umani e, calato il sole e completata la ronda, negli ultimi giorni si dirigeva spesso verso il cimitero. Si erano infatti udite strane voci, avevano riportato i gatti di passaggio, voci che sì erano umane, ma con una strana eco e persino Dog, il cane più grosso del circondario, che non aveva mai avuto paura di nulla e di nessuno, aveva fiutato qualcosa di strano, che lo aveva convinto a tenersi alla larga. Così il nostro eroe aveva deciso di indagare. Non che il cimitero gli fosse mai sembrato un brutto posto. Le lapidi, inondate dal sole, erano piacevoli per una pausa pomeridiana e a volte, anche se sempre e solo in pieno giorno, poteva incontrare intere famiglie, con bellissimi fiori o la signora Carla, armata di secchio e stracci, che si era riproposta di dare lustro alle tombe antiche, quelle da cui nessuno andava più. Insomma, era un posto come un altro e davvero non gli andava che la storia delle voci potesse dargli una brutta e immeritata reputazione. Quel lunedì sera, dunque, partì all’erta, pronto a svelare il mistero e a riportare tutto alla solita normalità.
A un primo sguardo tutto era com’era sempre stato, un po’ grigio, un po’ verde, ordinato, pulito. Non sembrava ci fosse nessuno e le sue orecchie, tese, e i suoi occhi, spalancati, confermavano quella prima impressione. Ma non erano trascorsi neanche cinque minuti, e intorno il buio era arrivato improvviso e feroce, che una voce si levò a qualche metro di distanza: «Io non tornerei in vita, per far che poi? Preoccuparsi di nuovo di come arrivare a fine mese?»
«Ricordi solo questo del tempo trascorso insieme?»
«Ricordo tua madre.»
«Non dirai sul serio.»
«Ricordo il vicino che spostava la rete ogni giorno un centimetro in avanti, finché non gli è arrivata la lettera dell’avvocato.»
«E di noi? Di noi non ricordi niente?»
«Non dire sciocchezze, certo che ricordo.»
«Non era bello, dopo cena, sederci sul divano, chiacchierare, guardare un film? Non ti piaceva uscire, le nostre gite, i viaggi?»
«Sì, era bello, ma…»
«Ah giusto, i tuoi famosi ma.»
«È che non era sufficiente: dopo la gita tornavamo a casa e via, di nuovo tutto daccapo.»
«Di nuovo tutto insieme.»
«Siamo insieme anche adesso. Non è questo che volevamo, quando lo abbiamo deciso? Scegliere di morire alle nostre condizioni, per restare unite, per non lasciare che altri decidessero per noi?»
«Hai ragione.»
«Dunque, perché non puoi essere felice?»
«Forse, non l’avevo immaginato in questo modo, il dopo.»
«Cosa credevi, in una nuvoletta parcheggiata davanti a nostro Signore?»
Oscar Tito Merry Gigio Conte Roccia era perplesso: come mai sentiva parlare distintamente quelle persone, ma non riusciva a percepirne l’odore? E le voci, poi, come mai non suonavano nitide alle sue orecchie? Era come se un filtro le velasse prima che potessero raggiungerlo. Nonostante questo, più parlavano e più aveva la sensazione di averle già sentite e di aver già assistito a un battibecco. Era stato molto tempo prima, forse due anni avrebbe detto, e ricordava anche di aver parteggiato per una dei due, ma per chi? Certo, si era avvicinato alle caviglie di Sianna e vi si era strusciato per darle la sua approvazione: la vita non era facile, e lui come gatto lo sapeva bene, ma un po’ di ottimismo non aveva mai fatto male a nessuno. Lei lo aveva ringraziato con dei grattini sulla testa mentre Lucinda lo aveva chiamato traditore. E allora era corso anche da lei, per spiegarle che potevano anche essere in disaccordo, ma non l’avrebbe mai lasciata, sarebbero sempre stati una famiglia, loro tre. Una famiglia. Erano loro le persone che aveva perso? Quando se ne stava con Tommaso, a lamentarsi dei bei vecchi tempi, non ricordava nomi e volti, solo una sensazione di calore. Tommaso, invece, aveva una memoria di ferro: «Non era malaccio vivere in coppia sai. Torni dal lavoro e trovi un piatto caldo, il profumo del bucato, e la casa non è mai vuota e anche se esci con gli amici, per qualche birra, trovi uno spuntino di mezzanotte che ti aspetta sul tavolo in cucina. Non era niente male, no.» Sofia, si chiamava lei. Tommaso l’aveva nominata tante di quelle volte. Era morta l’anno prima e lui un po’ la ricordava, perché gli regalava sempre degli squisiti fegatini e a volte se lo prendeva in braccio e lo teneva stretto. Non gli piaceva granché, ma la lasciava fare perché un giorno, mentre era vicino, vicinissimo ai suoi occhi, le aveva visto dentro una specie di tristezza profonda come un pozzo, irraggiungibile, persino per un gatto. Il funerale, quello non se lo ricordava. Si era messo in coda alla processione per Fresia, Onorio, Dalia, Giacomo e ne aveva salutato molti altri, man mano che il paese invecchiava. Un paese che era comparso spesso sui giornali, per le sue morti serene. Sembrava che ogni singolo abitante e ogni donna del circondario riuscissero ad andarsene così, senza soffrire, senza un lamento. Chi nel sonno, chi dormendo davanti alla televisione, chi sulla amaca in giardino, dopo aver bevuto il tè. Tommaso, che abitava lì da una vita, era stato intervistato molte volte e come unico medico cui facevano capo ben sette piccole frazioni, si era detto convinto che la qualità della vita, dalle loro parti, garantiva una fine grata a tutti.
Oscar non si era mai sentito troppo triste per il suo amico. In fondo, come lui stesso aveva ripetuto, non era in buoni rapporti con nessuno dei suoi pazienti scomparsi. Si era rammaricato della morte di Sianna e Lucinda, trovate mano nella mano, con un bigliettino per la comunità e il loro avvocato pronto a vendere la casa, ma per gli altri non aveva mai pianto.
«Diverse opinioni», aveva sentenziato una volta. «Sai com’è, da giovani ci si sopporta, ma più invecchiamo, noi umani, e meno ci è facile tollerare chi è diverso da noi.» Gli abitanti del paese sembravano pensarla come lui e avevano preso a frequentarlo sempre meno e a guidare per chilometri pur di consultare un altro dottore. Quando poi Sofia non era stata più parte della sua vita, non sembrava avesse sofferto molto. Più frugava nella sua mente e più gli sembrava che no, non aveva neanche pianto, neppure quando era venuto meno lo spuntino di mezzanotte sul tavolo della cucina.
Sianna e Lucinda, invece, a mano a mano che le ascoltava discutere, qualcosa gli si stava frantumando nel cuore e la memoria riprendeva il suo lento lavorio, puntellandosi ora su un profumo, ora su un colore, sul divano nuovo che avevano comprato e che lui aveva inaugurato acciambellandosi; sul vestito che si erano comprate per il matrimonio; sul plaid scozzese che Lucinda aveva voluto per la sua poltrona preferita…
«Non vorrai dirmi che non ti manca Vodka!»
Chi era questo Vodka? Gli tornarono alla memoria flash di quella casa, esplorata centinaia di volte, ma non ricordava nessun altro a parte se stesso e le due donne. Lui aveva vissuto lì, ora ne era sicuro. Gli erano comparsi dinanzi, come in una kodak scolorita, il grande cuscino su cui prendeva sonno e il poggiatesta della poltrona su cui si appollaiava.
Non era stato sempre il felino nobile della città, dunque, no davvero. Aveva avuto una dimora tutta. Forse era un cucciolo, che non poteva ricordare granché, ma quelle due camere da letto, lo studio, il soggiorno colorato e accogliente, quello era stato il suo posto felice. E la famiglia che ora lo aveva preso, e trasformato, verniciando la facciata di un triste verdone scuro, si era portata dietro Dog, l’immenso, ringhiante, stolido Dog, e il portone si era chiuso sul suo musetto un po’ sconcertato, la prima volta che aveva cercato di rientrare. Aveva vagato a lungo, prima che la signorina Tilde lo prendesse con sé e che gli altri, pian piano, schiudessero usci e finestre per farlo andare e venire a piacimento. E Vodka, insomma, un nome che lui trovava alquanto insolito, forse insignificante, Vodka che aveva trovato non una, ma ben dieci case, Vodka era proprio lui.
Oscar dovette sedersi un attimo, perché le informazioni che lo avevano raggiunto erano troppe, davvero, e i ricordi lo stavano spiattellando al suolo come una frittella. Però fece in modo da sistemarsi un po’ più avanti, per scoprire se c’era qualcuno da vedere oltre che da sentire. Il suo cuore rallentò un po’ alla volta e gli permise di tirare un lungo sospiro di sollievo. Rinfrancato, riprese a camminare finché non gli parve di scorgere due ombre e allora aprì il più possibile i suoi già grandi occhi di gatto e Sianna e Lucinda cominciarono a emergere dall’ombra, con la gonna colorata di Sianna e i corti capelli blu di Lucinda.
«Certo che mi manca Vodka, ma non capisci? Ma non bastava, persino tu non bastavi. Come facevi a essere sempre felice? Io non potevo, non ne ero capace.»
«Nessuno può essere sempre felice, riuscivo solo a vivere, mentre tu…»
«Io sopravvivevo. Invece vedi, qui è tutto diverso. Non mi sono mai sentita così libera.»
«Libera di far cosa? Non possiamo vedere nessuno, parlare con nessuno, accarezzare nessuno. Che libertà è mai questa?»
«La libertà di non avere più pesi sul cuore.»
«Neanche sogni però.»
Oscar Tito Merry Gigio Conte Roccia, sapeva perché Sianna era sempre triste e sapeva anche perché Lucinda fosse sempre felice, una troppo sprofondata nella realtà, l’altra troppo sganciata da essa. Se avesse potuto, con un colpo di bacchetta le avrebbe trasformate in due gatte colorate: ognuna con il proprio carattere, certo, ma entrambe capaci di procurarsi un raggio di sole sotto cui crogiolarsi, entrambe capaci di percepire il pericolo e scappare quando serviva. Si avvicinò ancora, annusando l’aria umida.
«Gatto!» sentì all’improvviso e si paralizzò. «Gatto sei proprio tu!»
Sofia! Pensò il nostro.
«Già», rispose lei, come se lo avesse sentito.
Tu mi vedi!
«Sì, non è magnifico?»
E riesci a sentirmi?
«Sì, ti sento, ti capisco. Non è strano? E divertente?»
Sofia era leggermente diversa da come se la ricordava, notò Oscar: aveva dei solchi profondi all’altezza della gola, di gomiti, polsi, ginocchia, fino alle caviglie. Ma sembrava non badarci: «Allora ti ricordi di me. Sono contenta.»
Dov’è la tua lapide? Chiese il gatto, rendendosi conto che non solo non ricordava il funerale della donna, ma mai neanche, girando nel cimitero, si era imbattuto nel suo nome. Aveva cercato tante volte, spingendosi fino alle tombe più isolate, sperando di farle un po’ di compagnia.
«Non ne ho ancora una. Giro e rigiro sperando di che finalmente qualcuno me l’abbia regalata, ma niente.»
Ne parlerò con Tommaso… propose il micio generosamente, ma a quel nome Sofia sgranò gli occhi, si portò la mano alla bocca, come in un vecchio film muto, e si fece in mille pezzi. Oscar restò a guardare perplesso e vagamente nauseato il mucchietto di mani, piedi, testa, finché lei si ricompose, si diede una spolverata alla gonna e scomparve tremolando, ma con grande dignità.
A quel punto il nostro, nonostante le ore notturne gli fossero congeniali, cominciava a sentirsi veramente stanco. Troppo da capire, troppi ricordi, ombre e dettagli da mettere a fuoco. E Sofia, che era sparita prima che potesse chiederle alcunché. Erano svanite anche Sianna e Lucinda? Ancora no. Le scorse, vicinissime ormai. Poteva notare il braccialetto che Lucinda aveva regalato a Sianna per il loro anniversario, la notte che se ne erano andate insieme e sentiva tintinnare i ciondoli: un cuore, due donne abbracciate, un gatto. Riusciva a cogliere le sfumature dei loro sguardi, le vedeva prendersi per mano e poi lasciarsi. Solo, non si erano ancora accorte di lui.
Si sarebbe fatto sentire, come con Sofia, per farsi raccontare ancora dei giorni trascorsi insieme e in cambio avrebbe confessato che sì, era un gatto, e la sua memoria le aveva lasciate andare, ma non il suo cuore. Che ora batteva di nuovo a ritmo serrato.
La prudenza si era fatta inutile, si disse e non voleva rischiare che si perdessero nella notte anche loro perciò, invece di continuare ad avanzare prudentemente, come aveva fatto fino a quel momento, spiccò un salto nella loro direzione.
Ma si ritrovò al cancello del cimitero.
«Amico, avrei dovuto dirti la verità», borbottò il grande Dog.
«Che ci fai qui?», chiese Oscar guardandolo in tralice, piuttosto seccato di non essere lì da solo.
«Mi è giunta voce delle tue ronde da queste parti. Non puoi raggiungerle. Le persone che abitano questo luogo intendo. Non ora.»
«Sì che posso. Non ho incontrato soltanto loro qui.»
«Hai visto anche Sofia?»
«Anche lei ha visto me e mi ha parlato. Può sentire i miei pensieri!»
«Perché Sofia non abita qui. Il cimitero non è la sua casa.»
«No?», chiese sconsolato Oscar, che cominciava pian piano a capire come stavano le cose.
«Sei un gatto intelligente. Non puoi non aver notato la siepe più rigogliosa di questo piccolo borgo.»
«Quella accanto alla casa di Tommaso?»
«È cresciuta molto nell’ultimo anno.»
«È cresciuta molto.»
«Capisci, dunque, che è per questo che lei ti vede.»
«Capisco» e gli parve di ricordare che Tommaso non era mai stato troppo gentile, finché non era morta Sofia e nessuno, da allora, nessuno nel borgo gli aveva mai più parlato e tutti giravano alla larga dalla casa con la veranda.
«Ti va un po’ di spezzatino, amico?» Dog interruppe i pensieri del felino e lo invitò come se tutto quello che era capitato fino a quel momento fosse ordinaria amministrazione.
«Da te non posso» ribattè Oscar, «lo sai che il tuo umano è allergico ai gatti.»
«Il mio umano non è mai stato allergico ai gatti e comunque non vive con noi già da un po’… La padrona, invece, sarà contenta di averti in giro per casa. Seguimi, che questo freddo mi sta congelando le ossa.»
«Se ne è andato? Il marito della tua padrona, dico.»
«Quasi», disse Dog. E col muso gli indicò un’ombra, con la testa appesa, ciondolante, che si muoveva in direzione di Sofia.
«Oh», si sorprese Oscar. «Eppure lei mi sembrava gentile.»
«Infatti lo è. Lui lo era un po’ meno. Era il fratello del signor Tommaso, lo sapevi?»
«No, ma, pensandoci bene, forse la cosa non mi sorprende.»
«Sai, la mia padrona sta preparando una lapide per Sofia. Per non lasciarla insieme ai due fratelli.»
«L’ultima volta che ho visto Tommaso stava benone» obiettò Oscar.
«La notte è ancora lunga, amico. Dai, che lo spezzatino ci aspetta.»
Molto strano, ma bello
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strano mi basta ❤
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